Racconto di GIOVANNA FERRO
“Come è profondo il mar... “ cantava Dalla.
La profondità del mare è proporzionale alla profondità dei sentimenti e delle emozioni presenti nei miei ricordi.
Il Mare che mi vide bambina.
La sveglia era alle sette del mattino.Che levataccia. A otto anni, dopo nove mesi trascorsi sui banchi di scuola, aspetti luglio e agosto per sonnecchiare, beatamente, tra le fresche lenzuola del lettino che ti accoglie. Invece no! Tocca alzarsi.
“Bisogna respirare l’aria salmastra, ricca di iodio, ne beneficerete tutto l’inverno” diceva mia madre. “Forza in piedi” gridava “Altrimenti arriveremo tardi e il nostro posto, vicino alla riva, sarà preso da altri”.
Appunto, il problema era quello: arrivare in spiaggia prima che tanta gente la affollasse. Malvolentieri, io e mio fratello, più piccolo di me di due anni, indossavamo il nostro costume, pantaloncini e maglietta, la mamma prendeva le sue borse cariche di asciugamani, creme e unguenti vari, e soprattutto… i panini e via di corsa al mare.
Già il panino… il suo sapore, chi lo dimentica.
Dopo aver sguazzato, nuotato e schizzato acqua fino ad avere le mani raggrinzite, la mamma ci aspettava sotto l’ombrellone e noi lì a ricevere in premio il nostro amato panino. Gustarlo fino all’ultimo boccone, seduti sulla sdraio a guardare il mare piatto, trasparente e il sole che lo accarezzava
Dolci ricordi che porterò sempre con me.
Il Mare che fu spettatore della prima delusione d’amore.
Avevo sedici anni e una sera di fine agosto avevamo organizzato con gli amici un falò sulla spiaggia e il bagno a mezzanotte.
Tra noi c’era un ragazzo che mi piacera, ma non riuscivo a capire se io piacessi a lui. Era gentile, carino con me, ma sfuggente. Avevo deciso che quella sera volevo capirne di più. Al tramonto eravamo tutti lì, seduti in riva al mare ad aspettare che il sole sparisse all’orizzonte.
Che calma si prova ad ammirare tanta bellezza. L’ultima calda luce del giorno che si cala nelle acque del mare, donandogli un arcobaleno di colori, l’unione di due forze che ferma il tempo.
Girai lo sguardo verso il ragazzo, cercando i suoi occhi, per condividere quel momento speciale: le sue braccia circondavano le spalle di una ragazza, ed io capii.
“Ma guarda intorno a te che doni ti hanno fatto: ti hanno inventato il mare “ cantai!
Aspettammo l’alba: la spiaggia deserta, il mare calmo, l’aria fresca del mattino, il giorno che nasce e l’estate che finisce.
Il Mare che sa essere crudele.
Quell’inverno era stato molto piovoso, avevo vent’ anni, e studiavo all’università. Lettere era la facoltà che avevo scelto e stavo preparando un esame.
Quella sera, seduta alla scrivania nella mia stanza, non riuscivo a concentrarmi.
Fuori c’era il diluvio, e guardando al di là della finestra, il mare sembrava impazzito, la forza potente con la quale infrangeva le sue onde sul porticciolo era spaventosa.
Il cielo, un manto nero schiarato solo da lampi e fulmini.
”Piove senza rumore sul prato del mare… “ recita Pavese, ma quella sera il rumore si fece sentire, eccome si fece sentire, tanto da restare svegli tutta la notte.
Al mattino dopo, la rabbia del mare si era placata, ma i danni non si contavano.
Il porto, le strade che lo raggiungevano erano un ammasso di fango e sassi.
Quanto dolore provocò a quei pescatori che videro le loro barche distrutte, la pesca, unica ricchezza dalla quale riuscivano a trarre sostentamento, quel giorno s’era fermata.
La gente di mare c’è abituata, i pescatori lo sanno benissimo. Partono prestissimo, col buio, e ritornano quando la città si sveglia. Si apprestano a solcare quel mare, nella speranza di tornare con il pescato. Si allontanano lentamente, silenziosi, con le loro barche, in quel mare che si unisce al nero del cielo, in cui si scorge solo il luccichìo delle lampare.
I pescatori li riconosci subito: la pelle del viso cotta dal sole, le mani grandi, gonfie, raggrinzite dall’acqua di mare. Uomini e mare una sola identità.
“È durante la tempesta che conosciamo il navigatore.” canta Seneca.
I “navigatori” della mia città furono degli eroi, seppero rialzarsi e ricominciare, come hanno sempre fatto, e a dimenticare quella terribile notte di fine febbraio.
Il Mare che mi ha vista felice.
Avevo programmato quella vacanza dal mese di Aprile: una settimana a Capri con le mie amiche. Ai primi di Luglio si parte.
Il traghetto che ci portava all’isola impiegò quasi due ore per raggiungerla, ma il viaggio fu meraviglioso.
Lo scenario che si presentò ai nostri occhi era quasi irreale: la costiera amalfitana ricca di bellezze naturali, le sue scogliere a picco nel mare blu, che gli fanno da palcoscenico, le case una tavolozza di colori. Una visione mozzafiato, sembrava di essere in un dipinto di Peter Graham, nei suoi paesaggi marini.
Eccola Punta Campanella, col suo faro e la torre, l’estrema propaggine della Penisola Sorrentina, che guardava l’isola di Capri.
La storia narra che la torre serviva per avvistare le navi dei pirati e una campanella, posta in cima ad essa, suonava l’allarme in caso di pericolo: da qui il nome.
Sentivo solo il rumore dei motori del traghetto e il mare che si apriva al suo passaggio.Onde altissime che raggiungevano le mani protese a toccarle.
Un mare azzurro, profondo, potente. Un mare immenso che non puoi recintare.
In lontananza apparvero i tre isolotti dell’arcipelago Li Galli, sui quali, secondo la mitologia, avevano vissuto le sirene dell’ Odissea: Partenope, Leucosia e Ligia. Si racconta che il loro canto magico ammaliasse i marinai causando il naufragio delle loro navi, schiantandosi sulle rocce degli isolotti. Ma Ulisse, come ci ricorda il mito, scampò al triste destino.
Eccoli, finalmente, i Faraglioni, i fari dell’isola di Capri. Li attraversammo, due masse potenti di roccia si ergevano su di noi. La grandiosità di quell’immagine lascia senza respiro.
Giungemmo al porto, prendemmo la funicolare che ci portava da Marina Grande su a Capri.
Era già sera quando arrivammo in albergo,il tempo di fare una doccia, mangiare, cambiarci e fare una passegiata nelle stradine affollate dell’isola.
Al mattino una colazione veloce e di corsa al mare.
Ci incamminammo per i vicoletti e le scale, che portavano giù a Marina Piccola, per raggiungere il mare. Il bianco delle case, il profumo dei gelsomini inarpicati sui muri, le cascate di bouganville che facevano da cornice alle stradine, le limonaie che emanavano il loro acre profumo, un sogno ed io lo stavo attraversando.
Finalmente in acqua. Ebbi la sensazione che quel mare mi stesse abbracciando. Lo lasciai fare, mi feci trasportare lontana. Chiusi gli occhi, ero in pace, ogni pensiero svanì e alzando lo sguardo un’immensa massa rocciosa mi fronteggiava impetuosa: era l’isola.
Le sensazioni che provai in quei giorni non mi abbandoneranno mai.
“Capri non puoi vederla se non l’hai sognata prima. Solo così può apparirti ancora come il luogo mitico dove la natura incontra la bellezza.” Raffaele La Capria e come darti torto.
Mare, ora sono lontana, il lavoro mi trattiene, non ti respiro, ti sogno, ti vivo attraverso i ricordi, tante foto mi fanno compagnia quando la nebbia e la frenetica vita della città, che mi ha accolta, mi soffoca: ritornerò.
Il Mare: la mia sostanza, la mia casa.
Racconto pubblicato nell’antologia ” Storie di mare e orizzonti” a cura di Culturalfemminile, edito da Gli scrittori della porta accanto.
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